Sindrome dell'abbandono, come superarla
COS'È LA SINDROME DELL'ABBANDONO?
Il costrutto di Sindrome dell’Abbandono è un concetto di uso comune con il quale ci si riferisce a differenti stati di disagio emotivo. Tutti noi infatti soffriamo un po’ di timore dell’abbandono: è un sentimento pervasivo di perdita o mancanza che avvertiamo nei momenti di allontanamento, separazione o lutto. La “qualità”, ovvero il contenuto del sentimento è dunque abbastanza comune e diffuso, può variare però la “quantità”, ovvero l’intensità.
Nello specifico utilizziamo l’espressione sindrome dell’abbandono quando l’intensità è massima, andando ad indicare un vissuto interiore profondo in cui domina l’estrema paura, fino a diventar certezza, di non poter esistere senza l’altro e dunque l’ansia di essere abbandonati. Nell’adulto l’altro è costituito dal partner della coppia, diversamente nel bambino si intende il caregiver.
La preoccupazione supera il sentimento della paura, diventa persistente e disturbante al punto tale da divenir angoscia abbandonica. Compaiono anche pensieri spesso ripetitivi e intrusivi di non poter vivere senza l’amore altrui. In termini psicoanalitici ci si potrebbe rifare al concetto di rapporti simbiotici in cui è presente l’illusoria idea che i due partner siano indispensabili l’uno per l’altro. Il timore o l’effettiva separazione suscita angosce così dolorose perché la rottura della simbiosi porta con sé vissuti di morte tali per cui si teme per la propria vita.
QUANDO DIVENTA SINDROME?
Occorre precisare che non esiste un’etichetta nosografica specifica, ovvero non stiamo parlando di una patologia psichica riconosciuta ed inserita nella nomenclatura internazionale, bensì si tratta di una serie di comportamenti e pensieri che si possono presentare trasversalmente in diverse strutture di personalità e in differenti occasioni. Può sperimentarla un bambino quando si allontana dal genitore per andare a scuola, un single che vorrebbe una famiglia o una persona anziana in una clinica residenziale.
Dall’isolata paura o senso di mancanza, reazioni adeguate a situazioni contingenti e determinate da una corretta analisi del piano di realtà, questa sofferenza psichica può assumere un carattere pervasivo con lo sviluppo di un insieme di sintomi differenti e spesso compresenti che divengono permanenti. Proprio per l’ampiezza e la varietà sintomatologica ci si riferisce ad essa come “sindrome”.
Il criterio principale che permette di orientarsi verso la presenza della sindrome e non di una normale, seppure acuta, mancanza o senso di perdita, consiste nel fatto che la persona in angoscia può sviluppare tale malessere psichico anche senza una reale minaccia di separazione e che questo sentire diventa persistente e pervadente. Spesso, infatti, l’intrusività e l’intensità del solo pensiero o timore sono sufficienti. Una frase, una parola o solo il tono e il modo con cui viene pronunciata o taciuta, o l’espressione mimica che la accompagna possono assumere un carattere distruttivo immenso. Altre volte ciò accade in concomitanza di una reale perdita ma l’individuo non riesce a superarla rivivendola ripetutamente e traumaticamente.
COME CAPIRE SE SI SOFFRE DI SINDROME DELL’ABBANDONO?
I sintomi che compaiono possono essere:
- - attacchi di panico
- - conversioni somatiche (sintomi fisici)
- - crisi d’ansia
- - disturbi del sonno
- - oscillazioni timiche: difficoltà a gestire la rabbia e la gelosia
- - pensieri intrusivi ed ossessivi
- - sintomatologia depressiva
Inoltre possono emergere questi atteggiamenti:
- - difficoltà a chiudere una relazione di coppia
- - estrema sensibilità al giudizio altrui
- - paura ad instaurare nuovi legami affettivi
- - ricerca di continue rassicurazioni e conferme altrui
- - tendenza a non assumere posizioni nette, soprattutto se in contrasto con l’altro
COME SI COMPORTA CHI HA PAURA DELL’ABBANDONO?
La natura di questa particolare forma di sofferenza emotiva, intrinsecamente connessa all’altro, ci permette di capire facilmente come la sintomatologia mezzo cui si esprime riguarderà principalmente il modo con cui ci si relaziona all’altro.
Il timore della rottura del legame comporta una regressione ai primari modelli relazionali affettivi attivando difese e comportamenti protettivi a lungo termine che finiscono per condizionare il soggetto. Ovvero all’interno del rapporto di coppia, per esempio, la persona che ne soffre modula inconsciamente i propri comportamenti al fine di prevenire ed evitare la separazione.
All’inizio le preoccupazioni sono facilmente celate da profusioni affettuose, grande attenzione e premura per l’altro. Più avanti, con lo sviluppo della relazione di coppia, alla crescita del legame affettivo corrisponde l’aumento del bisogno di tenere l’altro vicino, emerge un continuo tentativo di non deluderlo e di non contraddirlo, si amplia la paura della solitudine e presto diventa un terrore persistente che prende il sopravvento.
Antonio Correale pone correttamente questa riflessione: “sembra impossibile parlare dell’amore senza collegarlo ad una domanda fondamentale: quanto durerà? […] quanto è più forte la potenza dell’amore tanto più dolorosa la domanda” (Dalle Luche R., Bertacca S., 2019, L’ambivalenza e l’ambiguità nelle rotture affettive). Tale quesito che, come vediamo, è comune (e anche un po’ giusto ed inevitabile), può arrivare ad assumere carattere di sofferenza estrema e insopportabile portando ad agire alcuni stili relazionali che potremmo così riassumere:
- - Accondiscendenza: strutturare una relazione basandola su una falsa remissività e indulgenza per evitare contrasti o dissensi che potrebbero rendere l’altro insoddisfatto e dunque correre il rischio di una separazione;
- - Ipercontrollo: necessità di avere contezza e controllo costante e totale sulle azioni e sentimenti altrui;
- - Manipolazione: tendenza ad influenzare e condizionare il partner nelle sue idee e comportamenti per evitare possibili differenze “pericolose”;
- - Ricatto emotivo: fare leva sui sensi di colpa dell’altro facendolo sentire responsabile della propria felicità o infelicità;
- - Vittimismo: assunzione inconscia del ruolo di vittima indifesa e dipendente al fine di attirare l’attenzione altrui.
I comportamenti adottati suscitano nell’altro delle reazioni che però alimentano ancora di più le angosce iniziali, andando così a costituire un circolo difficile da sciogliere.
COME SI SVILUPPA?
Il fenomeno dell’abbandono e della sofferenza che sempre vi è collegata e che si manifesta a diversi livelli, è stato affrontato nel tempo da numerosi autori che ne hanno messo a fuoco, ciascuno, aspetti e peculiarità diverse. Infatti non vi è una teoria unica di riferimento o specifica sul fenomeno ma esso viene trattato trasversalmente dai differenti approcci teorici.
Tra i primi ad introdurre il termine di sindrome dell’abbandono vi è lo psicoanalista svizzero Germaine Geux a metà del secolo scorso, per designare un quadro clinico in cui “predominano l’angoscia dell’abbandono e il bisogno di sicurezza”. L’autore, citato da Laplanche e Pontalis (2010, Enciclopedia della psicoanalisi), definisce i soggetti che ne soffrono come abbandonici. Geux sottolinea che la sintomatologia riscontrata è riconducibile ad una insicurezza affettiva fondamentale che non dipende necessariamente da un abbandono reale subito nell’infanzia bensì da un atteggiamento della madre vissuto come un rifiuto.
Anche altri autori, pur senza trattare il fenomeno così specificatamente, hanno ripreso l’aspetto di legame con le relazioni primarie. Per esempio D. Winnicott sostiene che l’Io del bambino possa svilupparsi in modo sano solo se all’interno dell’unità madre-bambino essa sia in grado di svolgere una funzione sufficientemente buona. Ovvero non che non fallisca ma che sia in grado di prendersi cura del bambino senza intrudere, contenendo e sostenendo, comprendendo e rispecchiandolo nei propri bisogni.
Tra altri autori troviamo lo psicoanalista J. Bowlby che definì la relazione primaria madre-bambino come il precursore degli schemi comportamentali che l’individuo adotterà nelle relazioni future (2005, Psicopatologia evolutiva. Le teorie psicoanalitiche). Dunque lo stile di attaccamento sviluppato nelle prime esperienze all’interno della diade madre-bambino, determineranno le reazioni all’abbandono anche in età adulta. Esperienze precoci di mancata disponibilità o stabilità da parte dell’adulto caregiver che durante lo sviluppo non hanno permesso di vivere serenamente la costanza del legame (costanza d’oggetto), fanno sì che in età adulta si rivivano gli stessi timori di abbandono e senso di incostanza. I bambini che hanno sperimentato questa tipologia di legame la riprodurranno nelle relazioni future faticando a tollerare e gestire i distacchi per una carente sicurezza interiore.
Infine altri autori come Dalle Luche e Bertacca (2019) sottolineano invece il tentativo di cristallizzare la relazione in età adulta: ovvero renderla immobile e statica per poter evitare qualsiasi trasformazione. Il cambiamento di sé e dell’altro, porta a situazioni nuove e impreviste e dunque pensieri di possibili sofferenze, allontanamenti e separazioni. Gli autori, dunque, pongono l’accento non tanto sulla paura della rottura del rapporto bensì sulla paura del possibile cambiamento nel tempo. Questo, infatti, comporterebbe l’accettazione che l’altro possieda una soggettività indipendente dalla nostra. Nel caso specifico della persona che soffre di sindrome dell’abbandono, vediamo che questa è la sua paura più grande ma al tempo stesso, è quello che permetterebbe la permanenza nel tempo del rapporto, qualsiasi esso sia.
COME SI SUPERA?
In conclusione, risulta chiaro come un certo grado di timore dell’abbandono sia comune, normale e parte integrante di ogni rapporto sano. Quando però la paura dell’abbandono si trasforma in angoscia e influenza il modo in cui si mantengono o si istaurano nuove relazioni, allora diventa necessario un aiuto specialistico.
All’interno della relazione terapeutica il paziente sperimenta uno spazio e un luogo d’ascolto in cui vivere un nuovo modo di stare con l’altro. Grazie ai processi transferali inconsci può rivivere e comprendere il proprio passato sperimentando una costanza d’oggetto diversa nel rapporto attuale con il proprio analista.
Noi del Centro Clinico SPP come terapeuti ad indirizzo psicoanalitico riconosciamo infatti l’esistenza dei processi inconsci come parte del funzionamento mentale del paziente, riteniamo che alla base della sintomatologia ci sia l’angoscia come espressione di un disagio intrapsichico interno e pensiamo che gli esiti delle prime esperienze infantili siano centrali e imprescindibili e che l’esito di tutto questo lo si ravvisi nella difficoltà del paziente di affrontare i conflitti. La teoria psicoanalitica che da sempre si è interessata all’individuo e ai cambiamenti che avvengono a seguito dei tipi di relazione che instaura, può aiutare a dare voce a timori inesprimibili per poterli ricollocare all’interno di una riflessione individuale.
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Dr.ssa Berenice Merlini - Centro Clinico SPP Milano dell'età adulta