Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte. Rileggendo Freud (1915)
Prima la pandemia, ora la guerra.
Quando ancora stiamo cercando di porre rimedio e sollievo alle ferite dovute alla pandemia, ecco che un altro evento globale dalla forte carica distruttiva fa la sua comparsa: lo scoppio della guerra in Ucraina e il coinvolgimento globale delle nazioni nelle tensioni successive. Questi eventi hanno suscitato in tutti noi sentimenti contrastanti e vissuti intensi talvolta difficilmente inquadrabili. Il mondo esterno, una volta ancora dopo l’impatto dell’evento pandemico, irrompe nella quotidianità dei nostri gesti.
Gli eventi attuali invadono il nostro spazio, i nostri pensieri, la nostra visione del futuro, ci pongono di fronte ad interrogativi inquietanti su noi stessi: cosa dovremmo pensare? Come individuare il giusto e lo sbagliato? A quale narrazione del reale possiamo affidarci? Possiamo davvero sperare in una lettura che ci restituisca pace e serenità o tale desiderio risulta essere una vana illusione di fronte alla natura dell’uomo così come si manifesta nella guerra?
Cosa hanno in comune pandemia e guerra?
A tutti noi è passato per la testa il pensiero: “Prima la pandemia ora la guerra”. Vi è la sensazione comune che i due eventi siano in qualche modo l’uno il proseguimento dell’altro, come se la guerra fosse una conferma ed una logica conseguenza: dopo la crudeltà della natura ecco manifestarsi ora la crudeltà dell’uomo. Ricordiamo inoltre come nei primi mesi del 2020 la pandemia fosse paragonata alla guerra, quasi che fosse l’unico altro modello per poter descrivere e narrare quello che le persone stavano vivendo nello sconvolgimento della loro vita quotidiana.
Quale filo allora collega i due eventi? L’arrivo della pandemia e lo scoppio della guerra hanno in comune la comparsa di un tema spesso evitato e rimosso: la morte entra prepotentemente sulla scena pubblica e sembra coglierci impreparati.
È ricorsa da poco più di un mese la giornata nazionale in memoria delle vittime del Covid19 per la quale è stata scelta la data, il 17 Marzo 2020, in cui alcuni mezzi militari lasciavano nella notte la città di Bergamo carichi di bare. Quell’immagine è tra le più significative degli ultimi anni e racconta l’avvento della morte nell’immaginario comune: anche in quell’immagine viene evocata la guerra tramite i mezzi militari. La notte copre la loro uscita dalla città, quasi a seguire una necessità di non vedere, di nascondere, di non illuminare qualcosa di insopportabile alla vista. Tale avvento è stato percepito come improvviso, del tutto nuovo, inaspettato.
Reazioni al pensiero della morte: negazione, rimozione, controllo ossessivo.
Diversi furono i tentativi di reagire a tale improvvisa comparsa della morte: dalla negazione completa, che caratterizza larghe fasce della popolazione mondiale contrarie al vaccino o apertamente negazioniste rispetto all’esistenza del virus, fino a forme più sfumate di rimozione come il focus sugli aspetti statistici delle conseguenze della pandemia.
Le morti furono trasformate in numeri in un tentativo di svuotarle del loro contenuto emotivo traumatico: ricordiamo i bollettini quotidiani sui contagi e sulle vittime, inquietanti proprio per questa tensione alla rimozione del loro significato emotivo ovvero la morte celata sotto ad un’illusione di controllo statistico.
L’imprevedibilità e l’ineluttabilità della morte incontravano altri tentativi di attenuazione e rimozione: come cause dei decessi venivano sempre messe in luce le cosiddette “patologie pregresse” o l’età avanzata nel tentativo di sostenere quindi che la fatalità era sì frequente e vicina ma sempre come accidente e come eccezione, quasi che tali comorbidità potessero lenire l’angoscia e negare l’imprevedibilità e l’inevitabilità delle morti che si contavano ogni giorno.
Secondo il pensiero psicoanalitico tali dinamiche si spiegano con l’impossibilità per l’inconscio di rappresentare la propria morte: possiamo certo ragionare su questo concetto a livello razionale ma risulta impossibile raffigurare la propria morte ad un livello profondo.
Ecco allora che l’irruzione della pandemia prima e della guerra poi ci pongono di fronte ad un compito arduo: confrontarci con la nostra possibile scomparsa e con la natura fondamentalmente tragica del nostro esistere. Questo è il compito di fronte al quale tutti noi ci siamo ritrovati catapultati senza preavviso negli ultimi anni.
Dalla crudeltà della natura a quella dell’uomo: la natura umana è buona o cattiva?
Nel contesto appena descritto e nelle sue ricadute sui vissuti individuali diventano allora comprensibili le reazioni dovute allo scoppio della guerra. Tale evento arriva come un ulteriore e duro colpo alle fragili speranze emerse dalla pandemia, peraltro già fortemente in crisi: il lavoro comune dell’umanità alla ricerca di un vaccino e la speranza di una salvezza futura erano già fortemente incrinate dagli interessi dei singoli stati, dall’avidità di categorie di potenti, dalle disuguaglianze tra i popoli.
Lo scoppio della guerra sembra quindi portare con sé un ulteriore e più profondo aspetto di delusione: quello riguardante la natura dell’uomo. Se nel caso della pandemia era stato possibile sorprendersi di slanci di solidarietà e condivisione del dolore e trovare in questi aspetti umani una consolazione contro la violenza della natura, con lo scoppio della guerra anche quest’ultimo scoglio appare scivoloso.
Vi è quindi un senso di delusione nel vedere come le parti considerate più nobili dell’uomo, i valori dell’etica e della morale, siano costruzioni estremamente fragili e ben lontane dall’essere istinti di natura: la distruttività e l’odio appaiono essere ben più forti e dirompenti. Compare il dubbio che la natura umana sia fondamentalmente cattiva.
Su cosa si basa il nostro vivere in società?
Questo dubbio apre degli interrogativi rispetto al nostro vivere in società: come è possibile che l’uomo, essendo governato da tali tendenze distruttive, possa vivere in comunità?
La guerra mostra qui una faccia inquietante del patto sociale che dà forza e solidità ad uno Stato: le spinte aggressive che vengono vietate e punite nei singoli trovano invece nel clima di guerra una loro giustificazione e alimentazione nel conflitto tra i diversi Stati, coinvolgendo persino le loro culture ed i rapporti tra civili.
Mentre in tempo di pace lo Stato si fa garante di punire e contenere gli impulsi aggressivi, violenti e distruttivi del singolo tramite le leggi e le pene, in tempo di guerra tale garanzia non solo appare fragile e in discussione ma gli Stati attivamente alimentano e tentano di asservire tali forze agli obiettivi bellici.
Entra in crisi la ricerca del dialogo e viene sempre più alimentato l’odio e l’illusorio, se non apertamente tendenzioso, principio della lotta alla violenza con la violenza. Uccidere non è più un tabù se esiste un nemico mortale, cade in questo modo l’argine fondamentale sul quale si regge il vivere comune: la rinuncia ai nostri impulsi distruttivi al fine del vivere civile.
Vivere in pace.
Per poter prosperare in comunità ogni individuo decide di cedere parte della propria libertà, anche e soprattutto legata all’esercitare violenza e distruttività verso gli altri, in cambio di sicurezza. Quello che, nel percorso di educazione di ognuno di noi, inizialmente è un divieto esterno (un rimprovero, una punizione, un limite dato dall’adulto) viene gradualmente a costituirsi come costrizione interna, in un processo che sta alla base della costituzione morale di ogni individuo.
Tuttavia, si incorre in un grave errore se si valuta tale costituzione morale qualcosa di innato e intrinseco all’animo umano e non come un’acquisizione graduale e legata intrinsecamente alla propria identità sociale. Lungi dall’essere caratteristiche intrinseche dell’animo umano, valori come la solidarietà, l’altruismo, la tolleranza emergono da una reazione degli individui nei confronti dei propri moti distruttivi e dalla consapevolezza delle conseguenze di tali moti.
Nel corso dell’educazione di ognuno di noi impariamo a controllare questi impulsi e a sviluppare emozioni e sentimenti in grado di comprendere le conseguenze delle azioni aggressive nei confronti degli altri, di identificarci con le vittime, di provare sentimenti di colpa e di empatia che possano portare a sforzi riparativi e alla base di tutti i comportamenti di solidarietà e altruismo. Con l’arrivo della guerra tutto questo sforzo viene messo in forte pericolo.
Nella possibilità di riconoscere tale ambivalenza, ovvero nel riconoscimento che in ognuno di noi si muovono spinte all’amore ma anche alla violenza, all’aggressione e alla distruzione, sta la capacità di difendere i valori etici e morali messi a rischio dalla distruttività della guerra. Da queste riflessioni possiamo gettare maggiore luce sui sentimenti di cui abbiamo parlato all’inizio: il senso di delusione, la fragilità dei valori morali di fronte allo scoppio della violenza, l’incredulità ed il dubbio di una componente maligna dell’animo umano.
Una volta abbandonata l’illusione di poter applicare delle categorie morali alla natura umana, governata da spinte al legame e alla distruzione per sé non definibili come buone o cattive, è possibile allora provare a definire una possibile via di uscita allo scenario di devastazione della guerra.
Freud, nel suo saggio “Considerazioni attuali sulla guerra e la morte”, scritto a sei mesi dallo scoppio della prima guerra mondiale e che affronta i temi esposti sopra, esprime così tale speranza definendola “eroica”:
“Il nostro intelletto e la nostra sensibilità certo si ribellano contro un tale modo di collegare l’odio e l’amore; ma la natura servendosi di questa coppia antagonistica riesce a mantenere vivo e rigoglioso l’amore, dovendo meglio garantirlo contro l’odio che dietro ad esso se ne sta in agguato. Si può dire che gli slanci più belli della nostra vita amorosa sono dovuti alla reazione contro l’impulso ostile che s’agita dentro di noi” (Freud, “Considerazioni attuali sulla guerra e la morte”, 1915).
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Dr. Niccolò Lavelli - Centro Clinico SPP Mialno età adulta