Perché non riesco a perdonare? Come si fa a perdonare?
Credo sia capitato a tutti di ritenere di aver subito un torto da una persona, spesso a noi cara, e, a fronte delle di lei insistenze per ricucire un rapporto che ormai sembrerebbe lacerato, chiedersi: “Ma perché dovrei perdonarti? Perché dovrei fare in modo che tra di noi non sia accaduto alcunché?” Combattuti tra il dubbio se dare all’altro una nuova possibilità oppure se chiudere per sempre quella porta che, per ora, è soltanto sbattuta, ci crogioliamo in notti insonni per non dare ascolto al desiderio di perdonare che, dentro di noi, ci sembra un’impresa impossibile poiché è troppo grande l’offesa subita.
È indiscutibile che ciascuno di noi stabilisce che cosa è perdonabile e che cosa non lo è; non esiste una regola universale e non ci si può imporre di perdonare. Tuttavia, è importante osservare come diversi studi abbiano messo in evidenza una stretta relazione tra perdono e benessere psicologico. Il saper perdonare, infatti, sarebbe correlato alla riduzione di emozioni negative, quali il rancore, la rabbia, l’ostilità e il risentimento e a minori livelli di depressione e di ansia. Gli effetti del perdono si manifesterebbero non solo sulla salute mentale, ma anche su quella fisica.
Alcuni studi di neuroscienze hanno dimostrato che il processo del perdono coinvolge le regioni cerebrali relative all’empatia, all’attenzione, alla memoria e alla cognizione sociale e che lo sperimentare per lungo tempo le emozioni negative sopra citate, aumenta l’incidenza di disturbi cardiovascolari. Considerati i benefici che l’arte del perdono porta con sé, forse conviene davvero chiedersi: “Come si fa a perdonare?”; fermo restando che per farlo bisogna comunque essere convinti di volerlo fare.
Il significato del perdono
Definirei il perdono partendo dal ricordo di un gioco che da bambina mi affascinava, il caleidoscopio, quel tubo che ogni volta che muovevo formava delle immagini diverse ma usando sempre gli stessi pezzetti colorati che si intrecciavano in svariate combinazioni. Allo stesso modo possiamo osservare il perdono nei differenti “scenari” in cui ci muoviamo della nostra vita: da quello religioso, che trova nella richiesta di perdono, rivolta da Gesù sulla croce al Padre, l’esempio più significativo di esso, a quello sentimentale, relazionale, sociale, politico, professionale.
Seppur si tratti di realtà differenti, in esse il perdono sembra essere composto da due dimensioni cruciali che si intrecciano in modo diverso, a seconda del valore che assumono per ognuno di noi: quella del lasciare andare l’altro dalla nostra mente e quella del permettere a noi stessi di uscire dal rifugio del rancore in cui ci siamo isolati, di uscire da uno spazio della nostra mente. Il tutto partendo da un atto di liberazione da quel legame che ci blocca all’interno di memorie e pensieri sempre più dolorosi e opprimenti, non permettendoci di andare oltre.
Spesso però siamo proprio noi che non vogliamo interrompere il rapporto con chi ci ha fatto soffrire perché vogliamo vendicarci, seguendo quello che è un comportamento che appartiene alla storia dell’uomo. Risale, infatti, alle popolazioni più antiche il primo ricorso alla “Legge del taglione”, il principio di diritto secondo cui alla persona che aveva subito un danno intenzionale da qualcuno, veniva data la possibilità di restituire il medesimo danno al colpevole. La vendetta però non aiuta ad alleviare il dolore legato al torto subito, anzi, alimenta ulteriormente le emozioni negative sperimentate, che invece si esauriscono con la capacità di perdonare.
Ma allora come si fa a perdonare? Per rispondere a questa domanda, utilizzando uno sguardo psicoanalitico, proverò a spiegare il perdono come il punto di arrivo di un lungo e faticoso viaggio attraverso se stessi e gli altri; viaggio contraddistinto da due “passi” interdipendenti.
Il primo "passo" del perdono
Il primo passo del perdono ci porta a dover riconoscere la verità dell’offesa e del male subito, a dover ricordare anziché dimenticare. Il filosofo greco Socrate sosteneva che soltanto entrando dentro se stessi si può cercare la verità, considerata un sapere dell’anima, e utilizzava il dialogo quale strumento privilegiato per fare nascere la verità nell’interlocutore. Quel dialogo tra due persone che può considerarsi la caratteristica peculiare della psicoterapia psicoanalitica e che consente di accedere al proprio mondo interno, guidati e soprattutto protetti dalla presenza, silenziosa e/o parlante, di un’altra persona al proprio fianco. Dialogo che può essere anche interiore nel momento in cui ci troviamo a parlare con noi stessi, ascoltandoci attivamente.
Tuttavia, la presenza di un’altra persona al proprio fianco, a volte, si rende necessaria poiché il ricordo che si vuole rivedere e rivivere nella sua realtà, può essere molto doloroso, soprattutto se si tratta di qualcosa di profondamente traumatico. Ed è solo ripercorrendo la strada della realtà storica di ciò che è accaduto, del passato, che è possibile recuperare il significato reale che ha avuto e ha tuttora per noi ciò che è accaduto, sia dal punto di vista emotivo sia da quello cognitivo.
Il secondo "passo" del perdono
Il secondo passo del perdono consiste nel lasciare andare l’altro e nel lasciarsi andare ad altro. Questo ci richiede di riconoscere l’esistenza, dentro di noi, del sentimento della rabbia e del desiderio di vendetta per ciò che si è subito e per ciò che di se stessi è andato distrutto. Ci si sente feriti e trattati ingiustamente, spesso senza essere in grado di riconoscere l’odio che si prova verso la persona che ci ha fatto del male. È come se, in parte, ci chiudessimo in un rifugio poiché uscirne significherebbe dover affrontare una realtà troppo travolgente e un odio la cui espressione temiamo possa superare la nostra capacità di amare. Se è così allora forse è meglio restare all’interno del rifugio in cui ci fa compagnia il pensiero che la persona che ci ha offeso è talmente cattiva da non poter essere perdonata oppure troppo insignificante per essere attaccata.
A ciò si aggiunge che il rifugio ci permette di continuare ad alimentare il rancore che, seppur doloroso, porta con sé il vantaggio di tenerci legati a questa persona e di difenderci dall’esperienza della perdita. Invece l’esprimere in parole la rabbia percepita a chi ci ha fatto del male oppure in un luogo protetto come può essere la stanza d’analisi, ha un effetto catartico, liberatorio, che consente di uscire dal rifugio ovattato per proseguire il cammino verso la rinuncia ad avere un qualsiasi risarcimento per quanto accaduto.
Un cammino che incontrerà una successiva “intemperia” rappresentata dal senso di colpa che si sperimenta all’idea di aver avuto dei pensieri ostili e vendicativi. Per affrontarla è importante avere fiducia nella propria capacità di amare e soprattutto nella circostanza che tale capacità è riuscita a sopravvivere all’espressione del proprio odio e, quindi, ora è in grado di mitigare l’ostilità provata verso se stessi. Solo se siamo convinti di poterci perdonare e di poter essere perdonati per ciò che abbiamo desiderato fare, possiamo essere capaci o di lasciare andare via chi ci ha fatto un torto o un’ingiustizia, oppure di ritrovarlo in una relazione che avrà un colore emotivo diverso rispetto a quella di prima, poiché (come quando si muove il caleidoscopio) qualcosa dentro e fuori di noi si è mosso e adesso ci offre una combinazione del “tu ed io” che ha un colore nuovo, diverso.
Occorre precisare che, in questo senso, perdonare non significa scusare l’altro, dettati da un sentimento d’amore incondizionato, bensì scegliere volontariamente di superare la vendetta che a volte rischia di trasformarsi in un pensiero ricorrente, imprigionante. La conseguenza è il formarsi, nella nostra mente, di un circolo vizioso di emozioni negative che non fanno altro che aggiungere del dolore a quello che già stiamo sperimentando.
In fin dei conti, Dante Alighieri nel celebre verso, a mio avviso straordinario, del canto V nell’Inferno della Divina Commedia scriveva: “Amor, ch’a nullo amato amar perdona...”. Se è vero che “L’amore... a nessuno risparmia d’amare quando è amato...”, forse possiamo anche pensare di perdonare e tornare ad avere una relazione buona con la persona che ci ha fatto soffrire, se sentiamo di essere da lei amati, nonostante le sue fragilità.
A cura della dottoressa Donatella Rattini, Centro Clinico SPP Milano
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