Xenofobia: dinamiche psicologiche nell’incontro con l’alterità
È centrale ormai da diversi anni nel dibattito pubblico il confronto con la realtà dell’immigrazione e dell’incontro/scontro tra culture. Ne vediamo ogni giorno le manifestazioni nelle discussioni su diversi temi: le politiche di accoglienza, il razzismo, i movimenti politici xenofobi, la realtà quotidiana di incontro con il migrante, il tema dell’integrazione, le politiche sulla cittadinanza e molto altro.
La diversità culturale è una tra le tante manifestazioni dell’alterità nella nostra società: ne esistono altri esempi che sollecitano forti reazioni e discussioni, come ad esempio quelle sulla diversità sessuale, e in generale quando vengono presi in considerazione i diritti di particolari minoranze e gruppi che testimoniano alcune concezioni di vita per alcuni aspetti diverse da quelle della norma imposta dalla maggioranza.
Tuttavia, l’incontro con l’altro culturale, il migrante, lo straniero, è un particolare vertice di osservazione per capire cosa si muove, profondamente, in un individuo nell’incontro con l’alterità: come rispondiamo quando ci troviamo di fronte all’altro, al diverso? Come reagiamo a elementi incomprensibili o non riducibili al conosciuto? Quali meccanismi si attivano, che scopo hanno, quali emozioni suscitano?
La fatica dell’incontro con l’altro
L’incontro con l’alterità, nello specifico con un individuo portatore di significati e appartenenze culturali diverse e irriducibili alle nostre, significa trovarsi di fronte all’impossibilità di comprendere, ovvero all’ignoto. Tale posizione suscita angoscia: l’incomprensibile, il diverso da noi, ci porta, spesso automaticamente e inconsapevolmente, a cercare risposte semplici, definizioni, concetti che possano circoscrivere l’ignoto e renderlo descrivibile, classificabile, noto. Questa operazione muove da due necessità psicologiche: il tentativo di arginare l’angoscia di fronte all’ignoto e un principio economico, ovvero la necessità di processare informazioni nel modo più veloce e con minore sforzo possibile.
Da una parte si cerca quindi di arginare il vissuto di dubbio e incertezza: esporci all’alterità insinua in noi una domanda sulla nostra stessa identità. Dall’altra è necessario prendere decisioni che spesso hanno a che fare con emozioni di base come la paura: di fronte ad un individuo del quale non posso riconoscere le intenzioni, i desideri, i comportamenti avrò necessariamente un senso di disorientamento che muoverà il timore di non poter prevedere le sue azioni.
Per ovviare a tale vissuto è necessario utilizzare dei pregiudizi ovvero delle attribuzioni di significato semplici, immediatamente disponibili, che possano permettermi di prendere delle decisioni in modo veloce ed efficace. Tuttavia, tali pregiudizi, seppur utili e rapidi, non hanno necessità di avere un’aderenza alla realtà ed una comprensione del nostro stato emotivo e rischiano quindi di essere utili nell’immediato ma controproducenti nel lungo periodo: quanto più l’idea dell’altro è semplice e immediata tanto più sarà difficile davvero comprendere chi abbiamo di fronte.
Tali pregiudizi sollevano dall’angoscia e dal disorientamento ma non aiutano ad afferrare la complessità del reale. Quando li utilizziamo abbiamo la sensazione che il mondo possa rientrare sotto il nostro controllo, abbiamo l’illusione di un nostro potere che sembrava essere minacciato dall’imprevedibilità dell’altro. Se dovessimo per un attimo sospendere tali pregiudizi ci troveremmo ad affrontare di nuovo un sentimento angoscioso e una posizione di impotenza. Le nostre certezze identitarie e culturali (chi siamo, come siamo fatti, cosa ci contraddistingue) iniziano a incrinarsi sotto il peso di una minaccia di relativismo. Le reazioni a questo terremoto identitario, spesso vissuto in gran parte in maniera inconscia, si manifestano nei movimenti difensivi.
Difendersi dall’angoscia
Alcuni esempi di domande che suscita l’incontro con l’alterità culturale sono: l’altro è uguale o diverso da me? chi sono io? quale scelta ho avuto nell’essere ciò che sono? Cosa davvero fa parte di me o cosa invece no?
Tali interrogativi sono per lo più inconsci e si palesano spesso in quelli che potremmo definire meccanismi di difesa, ovvero nei comportamenti e pensieri tesi ad allontanare tali domande dalla consapevolezza, come ad esempio:
- - Negazione dell’alterità: “siamo uguali”, affermazione che spesso ha come corollario inconscio il “quindi tutto è giudicabile secondo il mio metro”, ovvero si arriva a negare la possibilità di una diversa logica e si applica il proprio metro di giudizio annullando l’alterità. Osserviamo questo meccanismo in diversi ambiti, basti pensare al modo di intendere il velo nell’Islam e allo sconcerto di fronte alla battaglia di alcune donne per il diritto di usare il velo in contesti pubblici in Francia. Questioni complesse vengono semplificate e giudicate secondo canoni culturali che si presumono universali.
- - Proiezione: “loro sono fatti così”, si etichettano e definiscono aspetti culturali altrui in modo generalizzante ed emotivamente carico. Tali definizioni smuovono spesso un sentimento di sdegno e disprezzo. Tali forti cariche emotive sono legate alla proiezione fuori da noi di elementi negativi della nostra identità che si cerca di collocare nell’altro culturale. Invece di confrontarsi con aree problematiche della nostra cultura, si preferisce attribuire questi nostri tratti all’altro per poterli così allontanare, disconoscere e attaccare. Un esempio può essere la critica del rapporto con la donna nel mondo musulmano, area critica anche all’interno della nostra stessa cultura: nel momento in cui si proietta tale elemento conflittuale all’esterno è possibile sentirsi sollevati rispetto all’immagine di sé e nello stesso tempo poter sfogare l’aggressività verso il nemico tanto disprezzato. La proiezione di elementi scissi può avvenire non solo con le parti svalutate e negative della propria cultura, ma anche con quelle ideali e mancanti. Un esempio può essere quello di attribuire ad un’altra cultura aspetti eccessivamente ed ingenuamente positivi come un miglior rapporto con la natura, un miglior senso di solidarietà, una particolare profondità spirituale. Tale proiezione di elementi scissi, in questo caso idealizzati, impedisce in egual modo l’incontro con l’altro e l’angoscia che ne deriva in quanto vede nel rapporto con l’altro una riparazione narcisistica delle proprie mancanze e difetti, una sorta di fascinazione che tuttavia impedisce un incontro autentico.
Comprendere l’angoscia
Secondo Devereux, uno dei padri dell’etnopsichiatria, l’incontro con l’altro è portatore di angoscia, necessariamente ed inevitabilmente. Ogni incontro con l’alterità presume una profonda messa in discussione di sé stessi. Se utilizziamo il verbo comprendere nell’ottica di “prendere con sé”, possiamo intendere l’incontro con l’alterità come un evento che modifica i nostri stessi confini aprendo domande che smuovono angosce identitarie profonde: confrontarsi con l’altro significa anche doversi guardare allo specchio.
Non sorprende quindi osservare come proprio dall’incontro con l’alterità, come quella del migrante, nascano movimenti politici che fanno della difesa dell’identità e della tradizione (spesso costruita ad hoc) l’obiettivo primario sulla spinta di una minaccia persecutoria dall’esterno, come ad esempio nella teoria della sostituzione etnica: guardarsi allo specchio può essere un esercizio penoso e difficile da sostenere.
Tale angoscia per Devereux non solo è ineliminabile ma necessaria: è l’elemento fondamentale da cui partire per poter davvero incontrare l’altro. Proprio nel riconoscimento di questa angoscia e nella possibilità di comprenderla all’interno della propria esperienza e farne un elemento di riflessione sta la possibilità di incontro con l’altro. Tale vissuto è ineliminabile per un semplice motivo: ognuno di noi è definito nelle proprie fondamenta dal proprio contesto culturale.
Individuo e ambiente
Tutti nasciamo con un patrimonio genetico pressoché identico nella sua forma generale ed unico nella sua espressione particolare e individuale. L’espressione di tale patrimonio genetico, quello che viene chiamato il fenotipo, è la realizzazione dell’informazione genetica individuale nell’incontro con l’ambiente circostante. Questo vuol dire che la nascita del soggetto avviene proprio nell’incontro tra le disposizioni genetiche individuali e l’ambiente circostante.
Essendo la specie umana una delle più immature alla sua venuta al mondo e quella che prevede uno dei periodi più lunghi di sviluppo per raggiungere l’età adulta, sarà anche una delle specie più esposte alle influenze ambientali, e quindi anche culturali, nello sviluppo e nella realizzazione del patrimonio genetico. Il soggetto è un soggetto profondamente socio-culturale, nelle sue stesse fondamenta.
Antonio Alberto Semi, psicoanalista italiano, in linea con i concetti espressi da Devereux, afferma: “Da una cultura non si esce […] L’essere umano è, in questo senso, un pulcino che non può uscire dall’uovo […] se lo facesse morirebbe. Gran parte del furore omicida che si scatena allorché viene posto in primo piano il pericolo della scomparsa del proprio universo culturale è dovuta, io credo, al terrore di morire per perdita della propria cultura”.
L’impossibilità di essere neutrali e oggettivi e quindi l’influenza della propria cultura nell’incontro con l’altro porta quindi a quello che viene definito etnocentrismo inconsapevole, ovvero alla tendenza a considerare i propri sistemi di vita e i propri schemi interpretativi della realtà come dotati di portata universale, quasi fossero il punto d’arrivo di una razionalità infallibile, e non l’esito provvisorio e perfettibile dei tentativi di adattamento compiuti dagli abitanti di un particolare contesto storico- geografico.
L’etnocentrismo inconsapevole implica la tendenza di ogni individuo a considerarsi come archetipo, come prototipo di ciò che è veramente umano (richiamo alla norma). Da qui la tendenza alla negazione delle differenze e/o alla loro esagerazione. Tale rischio è inevitabile, nel senso di necessariamente presente, ma anche di necessariamente oggetto di indagine.
Lo studio dell’altro è quindi anche e inesorabilmente studio di sé stessi, tentando di evitare un irrigidimento della distanza dall’altro, da una parte seguendo un’angoscia identitaria per differenziazione, dall’altra seguendo una tendenza all’identificazione. Questi due movimenti sono necessari e devono permettere un’oscillazione, sempre accompagnata dall’auto-osservazione, un movimento di andata e ritorno nel campo dove si svolge l’incontro. Un’estraneazione rigida rispetto all’altro crea un’estraniazione da se stessi: l’impossibilità di riflettere e conoscere a fondo la nostra identità renderà l’incontro con l’altro difficile, carico di emozioni negative e quindi di conseguenti moti intolleranti e difensivi.
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Dr. Niccolò Lavelli - Centro Clinico SPP Milano età adulta