Quando lo psicologo sbaglia, errori dello psicoterapeuta
Affidarsi a uno psicoterapeuta è un’esperienza che richiede desiderio di conoscersi meglio, voglia di cambiare e capacità di dare la propria fiducia a un altro, ma al tempo stesso può evocare profonde ansie che si manifestano come confusione, desiderio di interrompere la terapia o di smetterla di farsi “seghe mentali” e agire invece di pensare! Inoltre non parliamo soltanto con il nostro terapeuta, ma anche con amici, parenti e colleghi e ognuno di loro dispenserà consigli spesso molto perentori che, nei momenti di fragilità, potranno apparirci come ancore di salvezza o ancora avremo la sensazione che ogni parere che ascoltiamo, nel momento in cui ci viene dispensato, sia la soluzione, quella vera! Che confusione!
Ma noi abbiamo il nostro terapeuta... “Lui si che sa cosa è meglio per noi, cosa fare! Ma allora perché sto ancora così male? Sarà colpa mia sicuramente... Non sono capace neanche di farmi curare! Ci vuole sicuramente ancora molto tempo, ma il mio terapeuta è così sicuro di sé, meno male che c’è lui! Sì ok, ma perché non mi ha ancora trovato una soluzione? E se avesse sbagliato tutto? Ieri, sì ieri mi ha veramente fatto incazzare! Cosa c’entra mia madre con il mio capo! Ma dove l’ha letta quell’interpretazione? Nel bugiardino di psicoanalisi del 1820?”.
Psicoanalisi dell'errore
Ovviamente, come in qualsiasi ambito umano, lo psicoterapeuta può commettere errori nel corso di una psicoterapia tanto più quanto questa dura nel tempo. Anzi, non può non commetterne. E’ stato Kohut, un noto psicoanalista austriaco che ha proposto un modello di tecnica psiconalitica molto diverso da quello classico, a concettualizzare tale aspetto. Kohut in sostanza diceva che a un certo punto di un cammino psicoterapeutico caratterizzato da grande sintonia tra terapeuta e paziente avvengono delle rotture. Il terapeuta ad esempio non è empatico, non comprende le comunicazioni del paziente o esprime un’emozione traumatogena per il paziente.
A questo punto la terapia entra in una fase molto delicata, ma altrettanto importante: la riparazione della rottura. Tollerare questo passaggio è un passaggio evolutivo fondamentale: il mondo comincia ad assumere tinte più sfumate, non è più un assoluto costruito attorno alle polarità buono/cattivo, giusto/sbagliato, ma comprende la possibilità di uscire dal vissuto depressivo dell’ineluttabilità della sofferenza. Anche Winnicot ci ha insegnato che non esiste la madre perfetta, ma la madre “sufficientemente buona” che dispensa gratificazioni al piccolo, ma anche frustrazioni perché può essere stanca, distratta, triste, preoccupata o semplicemente perchè la sintonia assoluta non esiste. E meno male che le cose stanno così! Una madre perfetta consegnerebbe il bambino a un destino psicotico in cui ogni desiderio o bisogno riceve immediata soddisfazione senza che egli debba preoccuparsi di comunicarlo: quello che penso si realizza!
Quindi l’errore (mancanza di empatia, reazioni emozionali negative del terapeuta, dimenticanze, scarsa attenzione ai bisogni del paziente) può far male, ma ha anche il pregio di far emergere l’individualità della persona e spostare la relazione terapeutica da un piano “oracolare” a uno dialettico che valorizza di più l’autonomia del paziente. Tutto sommato si tratta di un importante obiettivo terapeutico. Vogliamo sostanzialmente che i nostri pazienti a un certo punto possano cavarsela senza di noi! Al terapeuta del resto è richiesto di sapere stare nell’incertezza e nella confusione senza andare in cerca di frettolose risposte che rischiano di funzionare più da calmanti per l’ansia del terapeuta che da elementi chiarificatori del mondo interno del paziente. Già Freud ci suggeriva di partire dagli elementi più accessibili alla coscienza senza precipitarsi prematuramente in interpretazioni profonde e in epoca più moderna Ferro parla di “interpretazioni insature” (che non pretendano di spiegare tutto e lascino aperti ulteriori spazi di riflessione), mentre Fonagy consiglia soprattutto in alcune fasi della psicoterapia di proporre il proprio punto di vista al paziente come “possibilità” e non come “verità assoluta”.
Ma se lo psicologo sbaglia ammette il suo errore?
Certo, può farlo! Può farne tesoro ed esperienza e decidere se, come e quando comunicarlo in seduta a seconda di quanto questo possa essere utile per il buon esito della terapia. Così come è diritto del paziente parlare al terapeuta delle proprie impressioni (e noi glielo chiediamo quando lo esortiamo a comunicarci tutto ciò che gli passa per la mente). Non abbiamo preso in considerazione quelle situazioni in cui la psicoterapia si rivela del tutto inefficace o dannosa poiché si aprirebbe un discorso troppo lungo e complesso. Ma consideriamo che riconoscere l’errore da parte del terapeuta sia un primo passo indispensabile per evitare che ciò accada. Per questo motivo anche (e soprattutto, aggiungerei!) gli psicologi vanno dagli psicologi: conoscere se stessi per conoscere gli altri!
Centro Clinico SPP Milano età adulta
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