Sindrome da selfie: come curarsi con la psicologia? - Psicologo Milano
Qualche mese fa notai che nello schermo appeso alla parete di un bar era proiettato il video di una canzone, che poi scoprii essere stata uno dei singoli più amati dell’estate 2017; si trattava di “L’esercito del selfie” di Takagi & Ketra. Restai da subito colpita dal ritornello:
“Siamo l’esercito del selfie
Di chi si abbronza con l’iPhone
Ma non abbiamo più contatti
Soltanto like a un altro post
Ma tu mi manchi
Mi manchi
Mi manchi
Mi manchi in carne ed ossa
Mi manchi nella lista
Delle cose che non ho, che non ho, che non ho”
Il ripetersi di questa strofa nella mente, mi ha portata più volte ad interrogarmi su quale possa essere la reale mancanza nascosta dietro alla tendenza, spesso irrefrenabile e eccessivamente ripetitiva, di farsi dei selfie, con l’obiettivo di condividerli su diversi canali comunicativi (WhatsApp, Facebook, Instagram, Twitter, ecc.); su quale possa essere “la prima delle cose della lista che non ho”.
L’ANTENATO DEL SELFIE
Il selfie, in quanto scatto fotografico che ha per oggetto la rappresentazione di sé stessi, può essere considerato come la declinazione che l’autoritratto ha assunto nel nuovo millennio, l’era digitale che vive di immagini condivise sul web.
Percorrendo la storia di tale genere figurativo nella pittura, si individuano differenti significati ad esso attribuiti nel tempo. Da certificazione della paternità dell’opera, di piccole dimensioni e posta ai margini della stessa (come la firma di sottoscrizione di una lettera), quale era la funzione dell’autoritratto nel Medioevo, si passa al Rinascimento, epoca in cui la raffigurazione del proprio volto da parte del pittore assume il significato di affermazione della propria personalità. Ciò in linea con il maggior prestigio che gli artisti avevano assunto in campo culturale e che aveva permesso loro di dare visibilità alla propria immagine, ponendosi come protagonisti assoluti delle proprie opere.
Sarà poi l’Ottocento che porterà maggiormente in luce la tendenza del pittore ad avvalersi dell’autoritratto anche come introspezione psicologica, con la finalità di trasmettere all’Altro una precisa immagine di Sé. Esemplari, al riguardo, sono i più di quaranta autoritratti dipinti da Vincent van Gogh, quale espressione profonda dell’intensità delle sofferenze e inquietudini che lo costrinsero a ripetuti ricoveri in ospedali psichiatrici. La volontà di comunicare attraverso le sue opere qualcosa che forse era per lui difficile esprimere in parole, sembra emergere chiaramente nell’ultima lettera dedicata al fratello Theo, in cui van Gogh scrive: ”Mio caro fratello, vorrei scriverti a proposito di tante cose, ma sento l’inutilità..... E poi è vero, noi possiamo far parlare solo i nostri quadri.” Tale lettera non fu mai spedita poiché scritta lo stesso giorno in cui van Gogh si sparò.
LE MOTIVAZIONI PSICOLOGICHE NASCOSTE DIETRO ALLA MANIA DEI SELFIE
Le ragioni che accompagnato l’eccessiva tendenza di un artista o di una qualsiasi persona a fare svariati ritratti di se stesso, pittorici o fotografici, pur apparendo variegate nelle differenti declinazioni storiche, potrebbero essere legate da un filo rosso che arriva fino ai giorni nostri. In tutti i casi, infatti, le auto rappresentazioni realizzate e mostrate ripetutamente al mondo, a mio avviso, sembrano essere utilizzate per comunicare “la prima delle cose della lista che non ho”: il senso di sé, il sentire di esistere come se stesso.
Per lo psicoanalista Donald W. Winnicott la prima esperienza di questo tipo avviene ad opera della madre, i cui messaggi emozionali veicolati attraverso i suoi occhi, nel corso della relazione esclusivamente diadica che crea con il suo bambino nei primi mesi di vita, permettono all’infante di iniziare a costruire il proprio sé. Al riguardo tale autore scrive che “... il precursore dello specchio è la faccia della madre... Che cosa vede il lattante quando guarda il viso della madre? Secondo me di solito ciò che il lattante vede è sé stesso.“
Affinché il bambino giunga a sviluppare un senso di sé reale, che gli permetta di relazionarsi con le persone come se stesso, è necessario che lo sguardo materno sia in grado di vedere, contenere, comprendere e rimandare ciò che il bambino porta ai suoi occhi. Ciò significa che il piccolo deve essere visto com’è, perché solo così la madre gli restituisce il proprio sé. Con il progredire dello sviluppo emozionale, il bambino diventerà sempre meno dipendente dalla necessità di vedere se stesso rispecchiato negli occhi altrui in quanto porterà dentro di sé quella certezza di esistere come individuo, ossia come soggetto caratterizzato da una propria identità emotiva e di pensiero che, prima di essere da lui “indossata”, si è costruita sulla base dell’immagine a lui rimandata dalle persone significative con cui si è relazionato.
Tuttavia può capitare che gli occhi della madre non siano capaci di vedere il proprio bambino com’è poiché il suo specchio è deformato da conflitti interni che, anziché restituire ciò che l’infante porta, le fanno rispecchiare il di lei stato d’animo sofferente. Conseguentemente, il guardare e non vedersi riflessi nella faccia dell’Altro poiché ci si accorge di non essere da lui visti, fanno sì che il bambino, e l’adulto che diventerà, non riusciranno a sentire di esistere come se stessi. Continueranno perciò a ricercare altre modalità per riavere dall’ambiente, attraverso degli scambi significativi con il mondo, quel nucleo centrale del proprio sé di cui sono stati privati e sul quale si sarebbe sviluppata la loro personalità. Ed è proprio tra queste modalità di scambi significativi che io collocherei la mania di auto-fotografarsi, finalizzata alla tendenza eccessiva di condividere in modo repentino e assoluto ogni auto-scatto.
Winnicott precisa, inoltre, che “Un lattante trattato in questo modo crescerà pieno di perplessità sugli specchi e su ciò che lo specchio ha da offrire. Se il volto della madre è poco responsivo, allora uno specchio sarà una cosa da guardare ma non una cosa in cui guardare.” Credo che in una siffatta condizione possa essere l’angoscia del vuoto e del niente, che si potrebbe vedere riflessa, a fare sì che lo specchio sia vissuto come una cosa “da” guardare ma non una cosa “in cui” guardare. Allora è decisamente meglio che in questa cosa sia l’Altro a guardare, nella speranza che, almeno lui, sia capace di vedere e di rimandare l’immagine di colui che vi si riflette.
Dietro l’eccessiva maniacalità con cui si ricorre allo sguardo dell’Altro e ad un contatto, quanto meno visivo, con qualcuno, ravvedo in parte “la seconda delle cose della lista che non ho”: la capacità di essere solo. Solo se sento di esistere come me stesso posso sentire di avere un sé in cui potermi ritirare per rilassarmi e, quindi, posso essere capace di restare, di fatto, solo.
L’IMPORTANZA DELL’INCONTRO DAL VIVO
Il pubblicare sui canali comunicativi le proprie auto-immagini può non essere sempre sentito come un incontro significativo con l’Altro; anzi, più è stata preminente la mancanza di uno sguardo capace di vedere, e più il soggetto sarà bisognoso di ricevere in continuazione delle conferme di se stesso tramite i feedback degli altri. Può capitare, così, che il farsi dei selfie e il condividerli diventino degli impulsi irresistibili che rischiano di mettere in pericolo la vita degli individui. Capita, non di rado, di sentire o di leggere di persone vittime di incidenti gravi, se non addirittura mortali, occorsi poiché, mentre erano intente in altre attività, avevano le mani occupate dal telefonino usato per scattarsi una o più fotografie. In altri casi, invece, gli scatti vengono ricercati in contesti al limite quali la cima dei grattacieli o i binari del treno.
Situazioni così estreme evidenziano quanto sia importante la relazione con il destinatario del selfie che diventa lo spettatore dell’esibizione teatrale dell’autore che sembra dire, a gran voce: “Guardami, sono qui”. Tuttavia un conto è esibirsi in un palcoscenico dal vivo e un conto è il riproporre il proprio spettacolo in modo indiretto; in quest’ultimo caso si perde il profondo significato emotivo dell’essere visti e del trovarsi, forse per la prima volta, negli occhi dell’Altro.
Credo quindi che possa davvero valere la pena di provare a vivere tale esperienza all’interno di un percorso psicoterapeutico in cui lo psicoanalista utilizza i propri occhi per vedere il paziente per ciò che in effetti è in ogni dato momento, per mostrargli soltanto ciò che gli viene mostrato, senza distorcere l'immagine con contenuti che non appartengono a chi la sta proiettando. L’essere realmente guardato da una faccia che lo riflette, mette il paziente in grado di cominciare a sentire di esistere come persona e di possedere un primo nucleo del sé. In pratica sognando il paziente per come ancora non è, lo psicoterapeuta gli permette di iniziare il suo percorso di crescita perché ognuno cresce solo se è sognato.
Tuttavia per poter incontrare due occhi dal vivo è necessario mettere da parte il pensiero di van Gogh che “noi possiamo far parlare solo i nostri quadri” e andare verso un incontro vero che, pur essendo fortemente temuto proprio perché da sempre desiderato, può donare un’esperienza esclusiva.
A cura della dottoressa Donatella Rattini, Centro Clinico SPP Milano
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